Le sculture di noi stessi

C’è modo di rimettere la musica al suo posto e lasciare che ci intrattenga? O è destinata per forza di cose a plasmare la vita?

L’anno era il 1991, il che vuol dire che facevo ciao ciao all’adolescenza per diventare un debuttante dell’età adulta, peraltro penosamente impreparato ad affrontarla (quello non è cambiato). Erano i giorni in cui scavavo un solco fra Pavia e Milano a forza di percorrere la distanza in corriera. Aspettavo la fine delle lezioni bocconiane in via Sarfatti, a Milano sud, per sfidare le nebbie padane e tracciare un altro solco in direzione della provincia, dove tutto era uguale alla grande città: stesse marche dei giubbotti, lo stesso taglio dei jeans, lo stesso bisogno di frequentare i locali giusti. A Milano c’erano i karaoke, eccola una differenza: nella provincia non sarei mai finito su un palco vestito da donna a sgolarmi sui Litfiba di fronte a qualche decina di sconosciuti alcolizzati. Non per mancanza di volontà, ma di karaoke.

Il tardo pomeriggio era il momento più importante della giornata: finite le ore produttive, non avevo scuse per non vegetalizzarmi di fronte a MTV. Che poi, se devo essere sincero, mica era MTV, era Video Music, che stava a MTV come Pavia stava a Milano: stessi video, un logo diverso in basso a destra.

Avevo iniziato da due o tre anni, non di più, ad ascoltare la musica che mi sarei portato dietro, volente o nolente, per il resto dei miei giorni. Non si trattava solo di scoprire gruppi e canzoni di cui parlare l’indomani sui banchi di Contabilità (anziché seguire la spiegazione della partita doppia): la posta in gioco era molto più alta. Si trattava di dare gli ultimi colpi di scalpello alla scultura immaginaria della mia persona. I colpi decisivi. Ne sbagli uno e hai un orecchio in meno, capite? Naturalmente avrei continuato a scoprire musica nei decenni successivi (diavolo, mi sono messo ad ascoltare i Megadeth dopo i cinquanta), però una volta passata la ventina non si sarebbe trattato più di definire la colonna sonora del mio personale romanzo di formazione, ma soltanto, e banalmente, di arricchire la mia cultura musicale.

Quel tardo pomeriggio insomma, diciamo di fine ottobre (mah), seguivo Video Music sorbendomi coscienziosamente una clip dopo l’altra, buttato sul divano della mansarda di fronte al piccolo televisore Mivar, testimone di una sfilata di video che sarebbe stata interrotta solo dalla voce di mia madre dal piano di sotto (“è prontoooo!” – fino al terzo richiamo non mi sarei mosso). Mentre il mondo si sciroppava felice house e techno, per coloro che si titillavano con l’idea del rock alternativo l’epoca era quella dello shoegaze, del baggy di Manchester: in tv passavano i Charlatans, i Ride, magari The Farm. Mi pare che Nevermind fosse appena uscito ma i Nirvana erano una band semi sconosciuta che aveva fatto solo una canzone (fighissima certo, ma solo quella). Quel pomeriggio il mio piccolo nirvana personale fu sconvolto da quattro tizi in mezzo a uno stadio vuoto, un suono di chitarra che era come la sabbia e un giro d’accordi con la Luna in Sagittario.

Pensiero numero uno: WTF?

Pensiero numero due: LO VOGLIO!

Per fortuna l’emozione non mi fece dimenticare la cosa più importante: sgranare gli occhi e non mollare l’angolo in alto a sinsitra dello schermo per nulla al mondo, perché in quell’angolo poco prima della fine della canzone sarebbe comparso, effimero come una stella cadente, il nome della band. Se me lo fossi perso non c’era modo di sapere cosa avevo appena visto: mica potevi andare sul sito della televisione per consultare le loro playlist. Non esistevano, i siti internet. O se esistevano, dormivano.

Fu così che seppi che avevo appena scoperto i Pixies; il nome della canzone però no, quello non riuscii a memorizzarlo (siccome poi i siti internet li hanno inventati, posso dirvi che era Alison). Com’ero solito fare all’epoca, e più o meno per i trent’anni seguenti, il giorno dopo mi scapicollai fino al primo negozio di dischi che mi capitò a tiro per comprare qualcosa dei Pixies.

Comprai il disco sbagliato, cioè un album dei Pixies, ma non quello con la canzone di cui mi ero innamorato. Succede. Non conoscevo il titolo della canzone, ero andato a caso. Non aveva nessuna importanza: pochi mesi più tardi, i dischi dei Pixies li avrei avuti tutti. Almeno quelli del periodo d’oro. Il primo che avevo comprato, quello preso alla cieca, si chiamava Trompe Le Monde e posarlo sul lettore di CD (eh, lo so) era come entrare in Guerre Stellari: camminavo in una dimensione aliena. Quel disco era una pioggia di asteroidi da due minuti l’uno, a volte meno, che davano l’assalto al mio mondo bucando la mia debole atmosfera senza pietà. L’unico modo in cui riuscivo ad ascoltare i Pixies era al buio, con le cuffie, sdraiato sul pavimento dopo che tutti erano andati a letto.

Più di trent’anni dopo, all’Olympia di Parigi, i Pixies hanno dato un concerto in cui hanno suonato dall’inizio alla fine due dischi: il disco di Alison e quel Trompe Le Monde che comprai l’indomani a caso. Più catartico di così si muore. Pensare che sono pure arrivato tardi all’Olympia, ero dell’idea di starmene tranquillo in disparte. Ma i parigini proprio non sanno andare ai concerti e così mi sono ritrovato senza manco volerlo in prima fila, col naso sotto gli stivali messicani della bassista. E dalla prima fila, ancora una volta, mi sono ritrovato sdraiato su quel pavimento di casa mia, al buio, quando tutti dormivano.

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LA DONNA DAL VOLTO BIANCO

Kyoto ormai è così lontana da sembrare un sogno, ma devo tornare a quella sera in cui la maschera è caduta. La vostra espressione da samurai impassibile non inganna nessuno, amici giapponesi. Lo sapevo che nei vostri petti batte un cuore. Forse va a pile, ma batte.

Fatto sta che quella sera andavamo alla deriva a Gion, la Trastevere di Kyoto, affascinante se non più molto autentico quartiere delle geishe: quello che io avevo improvvidamente definito come il nostro puttan-tour, con uno dei miei famosi slanci di poesia. La Babsie mi aveva rimpicciolito con lo sguardo come una maglietta lavata a novanta gradi, e aveva ragione.

Gion è un reticolo di stradine tranquille, ristoranti tradizionali e casette di legno. Qui, sbirciando fra le sagome sgomitanti delle comitive di turisti, si scoprono quegli angoli di bellezza che mi sono mancati finora nel paesaggio urbano giapponese, in cui (al di fuori dei templi e dei giardini, spazi circoscritti e dedicati alla cura dell’anima) niente sfugge alla dittatura della funzionalità: il piano regolatore nazionale probabilmente dice solo: “Purché sia un cubo grigio-beige”.

A Gion insomma abbiamo fatto una passeggiata nel Giappone degli vecchi film che non ho visto e siamo andati a cena in un ristorante tradizionale, ed era pure buono. Kaiseki, si chiama questo tipo di cucina: è un’esplorazione dei sapori e degli stili di cottura della cucina giapponese, crudo compreso. Non si ordina nulla, nel kaiseki: ci si sottomette umilmente agli umori del cuoco (e in genere è meglio così).

Ad accoglierci nel locale c’è una signora di mezza età con il viso impastato di bianco (“una ex geisha!” penso senza osare dirlo, perché ho un vago sentore di gaffe). Di fronte a noi, come sempre seduti al bancone di fronte alla cucina, un giovane cuoco allegro spignatta assistito dalle sous-chef. È chiaro che la donna dal volto bianco è il boss: ammiriamo l’indifferenza con cui sorseggia la sua grossa birra alla spina e chiacchiera con un tizio vestito da uomo d’affari che cena da solo in fondo al bancone, mentre il cuoco lascia la cucina e corre ad apparecchiare per una coppia appena entrata.

Intorno a lei si sgobba, si suda, si corre: la donna dal volto bianco osserva, approva, corregge, si serve un’altra birra e ride con la coppia che si è appena seduta accanto a noi, dal lato della Babsie. Lui, ubriaco fradicio già quando è arrivato, occhi rossi e fuori dalle orbite, prende un interesse particolare nella Babsie e insiste a tenere viva la conversazione pur non parlando una parola d’inglese.

I due cinesi seduti di fianco a me sono silenziosamente disprezzati da tutti, mentre io e la Babsie cominciamo ad attirare l’attenzione generale. Padrona, cuochi e clienti locali si mettono a ripetere ossessivamente “Italy, Italy!”, unica parola che ci permette di gettare un ponte oltre l’incomunicabilità (il cuoco aggiunge un graditissimo “Materazzi”). Noi ridiamo, loro ridono, il tizio dagli occhi rossi è praticamente sdraiato su di noi, l’uomo d’affari prova ad insegnarci parole giapponesi che non capiamo, per un attimo spero quasi che ci offra la cena ma credo che i soldi gli servano per il dopo-cena. Quando chiediamo il conto la donna dal volto bianco sente il bisogno di annunciarlo a tutti: noi facciamo l’inequivocabile gesto del conto e lei grida “Italy bla bla bla” a tutti clienti, che si affrettano a complimentarci, almeno credo.

I cinesi sono ancora lì, dimenticati. Scambio con loro un sorriso mesto mentre paghiamo, tanto basta perché ci chiedano, loro che l’inglese lo parlano, le solite cose che si dicono fra turisti. Le due parole che ricordo dal malaugurato corso di cinese che feci anni fa li fanno sorridere, o forse ridere (di me).

Torniamo nella notte di Gion sotto lo sguardo benevolo della donna dal volto bianco, che ci accompagna alla soglia del suo ristorante e ci osserva mentre ci allontaniamo un po’ brilli pure noi.

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IL TRANELLO

E comunque trovo rassicurante il fatto che in due settimane in Giappone abbiamo subito ritardi di treno, di bus e di metropolitana, a volte neppure annunciati. E che per lo più i giapponesi salgano sui mezzi di trasporto alla rinfusa, senza fare la fila, e che qualcuno fumi di straforo nelle strade in cui è proibito, e che starnutiscano e si soffino il naso come noi (ok, come me), cioè come tromboni: pure al ristorante, persino durante le preghiere in musica nel tempio. Mi piacciono già di più, i giapponesi.

Ecco, a proposito di musica sacra nel tempio.

È iniziato tutto per colpa di un toast al curry. Sì, lo so, lo so. Amiamo la cucina locale e sono due settimane che mangiamo ultra-giapponese, voglio dire miso soup con granchio a colazione per intenderci, ma oggi volevamo fare uno snack al volo, e insomma siamo capitati in questo posto che faceva toast con uova strapazzate o col curry e altre amenità di questa cucina apolide, figlia illegittima della globalizzazione.


E quel toast al curry ha provocato giustamente i commenti divertiti del gruppo di quattro giapponesi seduti al nostro stesso tavolo, inginocchiati agilmente per terra nonostante viaggiassero più sui settanta che sui sessanta: non facevano che ripetere fra loro “tosto cúlli, ah ah ah!”, l’ho capito anch’io di cosa parlavano. Poi però hanno attaccato bottone con noi, sono stati molto simpatici. Gente particolare, anche: una pittrice, un ex chef. Una di loro, abbiamo scoperto poi, è stata sposata con un francese e ha vissuto a Parigi: questo spiega la temerarietà con cui ha rivolto la parola a due stranieri come noi. Era la prima volta in effetti che riuscivamo a scambiare due parole con qualcuno che non fosse addetto a un servizio pubblico; al di fuori, cioè, dell’interazione cerimoniosa con camerieri, autisti d’autobus e cassiere. Questa cosa ci ha commosso.


Fatemi aprire una parentesi. La famosa gentilezza giapponese mi sembra in realtà essere soprattutto cerimoniosità: si applica ritualmente in determinate situazioni. Per esempio: se entri in un ristorante e chiedi se c’è posto, se la risposta è sì vuol dire che tu diventi un cliente, e allora scatta il cerimoniale degli inchini. Ma se non hanno posto ti gridano FULL e tornano a badare ai fatti loro prima che tu abbia il tempo di dire “sushi”, né buongiorno né arrivederci.


Insomma, tornando ai nostri nuovi amici settuagenari, eravamo entusiasti di tanta interazione e letteralmente commossi quando ci hanno proposto di accompagnarli al tempio, per assistere all’esibizione dei suonatori di flauto di bambù. A dire il vero la Babsie era più convinta di me, ma non mi sono sentito di contraddirla dopo la mia gaffe della sera prima (eravamo a spasso a Gion, quartiere in cui i turisti vanno ad ammirare le geishe che ancora scodinzolano rapide per strada la nei loro kimono variopinti; io l’ho definito “un enorme puttan-tour collettivo” e la Babsie non mi ha rivolto la parola per un’ora.) Morale della favola, abbiamo accolto l’invito ad andare al tempio a sentire i suonatori di bambù.


Io non me ne intendo, ma per due ore abbiamo subito note sfiatate a cazzo di cane, per dirla con Beethoven; non sentivo uno strazio così da quando il mio compagno sordo in prima media faceva i suoi primi esercizi di flauto. Mancavano solo i ceci su cui inginocchiarsi.


Dopo due settimane di incontri con giapponesi nei panni del poliziotto cattivo, quegli anziani travestiti da poliziotto buono che ci hanno trattato da esseri umani ci hanno teso il tranello. Me li vedo, i nostri anfitrioni locali, che si scambiano occhiate d’intesa coi suonatori del tempio. “Questo è per insegnarvi a prendere i toast col curry.”

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DISTOPIE RETRÒ

In the Hell of Pachinko, cantavano i Mano Negra.

Probabilmente l’ho già detto, ma quanto viaggio una delle cose a cui faccio più attenzione sono i bar. Do un’importanza esagerata ai bar e ne sono consapevole. Viaggio per vedere come bevono gli altri, dico sempre, e mica scherzo più di tanto. È che mi interessano i bar. I bar come luogo di socializzazione e quindi punto d’osservazione privilegiato su una cultura (privilegiato ovviamente nel senso che mentre osservi ti fai una bella pinta di IPA).

È una prospettiva parziale: non tutti i paesi hanno bar, almeno non come li intendiamo, e non sempre i bar hanno la funzione che interessa a me. E infatti.

Vengo da un paese e vivo in un (altro) paese in cui nei bar ci si incontra, intorno a un caffè o a una birra, spesso all’aperto, su una piazza o per strada: di fronte a tutti, visibili, accessibili. Io mi faccio il mio caffè o la mia birra e intanto guardo: guardo e sono guardato (e a volte si esagera).

Fin dai primi giorni in Giappone quindi mi sono sentito confuso, perfino intimidito dalla mancanza dei bar; perlomeno di bar come li penso io.
A eccezione di qualche posto da turista e del solito temibile Starbucks, se si vuol bere un caffè a Tokyo la cosa più facile è rifugiarsi in un convenience store tipo Seven Eleven o scendere in una stazione di metropolitana dove si trovano altre catene del genere Starbucks. È quello che mi è toccato fare la mattina prima del teatro kabuki, scendere in metropolitana per bere un caffè. È stata la prima volta nella mia vita e spero anche l’ultima.

Va peggio la sera. Accertato che a Tokyo non esiste un’idea di aperitivo, o se esiste la tengono molto ben nascosta, i bar in cui andare a bere una birra non debordano sulle strade e sulle piazze, non sono fatti per guardare la vita che scorre intorno a te, magari immergersi negli odori e nei rumori della città, scusarsi debolmente col tipo che ti chiede venti centesimi, uma sigaretta o un buono pasto; i bar di Tokyo non si mostrano, non t’invitano, non ti accolgono, ma si nascondono: il più delle volte in un seminterrato o al secondo o terzo piano di un palazzo, dove se ne stanno con la loro aria di esclusività, chiusi, bui e climatizzati come avessero paura che si scongeli il bisnonno samurai.

Nei bar ho fatto la mia prima esperienza di quella sensazione distopica che mi comunica Tokyo, quella divaricazione estrema fra i 33 gradi umidi della strada e il rigor mortis dei 15 gradi all’interno dei bar. Ho avuto lampi di stress post-traumatico legato ai miei peggiori ricordi degli Stati Uniti.
È una suggestione distopica che ho provato anche andando a spasso la sera nei quartieri alla moda come Shinjuku e Shibuya, metà turisti e metà giovani giapponesi messi giù da gara. C’era qualcosa di familiare, in quel paesaggio urbano fatto di insegne al neon accavallate e affastellate, di sale giochi e fast food. E non erano solo i film, i libri, i fumetti. Sentivo proprio di averlo vissuto, in qualche modo. Mi sono chiesto dove, finché mi sono rivisto a metà anni ’90, sbarbatello, a passeggiare a Piccadilly Circus e Leicester Square a Londra, fra luci al neon e sale giochi e fast food, in quei quartieri rimasti fermi agli anni ’70 perché da allora non hanno inventato più niente e quell’epoca è tutto ciò che hanno da vendere. E sia chiaro: niente contro Piccadilly o Leicester Square, in fin dei conti quei tranci di pizza stantii all’una di notte mi hanno più volte salvato la vita.

Ecco, è come se Tokyo avesse replicato lo stesso modello ma più in grande, moltiplicando tutto per mille. E poi lì si fosse fermata: al fascino per il neon e le sale giochi, agli anni ’70, facciamo ’80, cioè l’ultima epoca in cui Piccadilly Circus e Leicester Square erano alla moda. Il Giappone icona del futuro che diventa una finestra sul passato. Un futuro che a Tokyo, sussulti tecnologici a parte, ha un gusto un po’ retrò.

O più semplicemente, è che non ci ho capito una beata mazza del Pachinco.

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INIMITABILI

Arrivai a Londra sbarbatello, in cerca dei personaggi meschini di Dickens e dell’eco delle mie canzoni pop, e mi sentii subito nel posto mio, fra carrozze della metropolitana impestate dagli avanzi di fast food e pavimenti dei pub appiccicosi per la birra. Ero partito con il mio biglietto di sola andata tre giorni dopo la discussione della tesi di laurea, non possedevo ancora un completo e andavo in ufficio con un due pezzi economico non capendo perché mi guardassero male. Ignoravo che a Londra, fra finanziari e accountant, il completo era d’obbligo (e non blu, per l’amor d’Iddio, che fa troppo casual.)

A Parigi ci sono arrivato due volte, e nessuna delle due mi sono trovato al mio posto, almeno all’inizio. La prima volta mi sentii un pendolare di lungo raggio: Parigi era troppo strettamente legata al lavoro che mi ci aveva portato e sapevo che nessuno dei due sarebbe durato a lungo. La seconda ero un turista, perché un lavoro non ce l’avevo e per qualche mese le mie giornate trascorsero bevendo caffè e leggendo il giornale a Montmartre. Dodici anni dopo sono ancora qui e continuo a fare del mio meglio per sentirmi un turista, perché l’idea di essere parigino, dopo essere stato londinese, mi sembra incongrua, anche se i parigini mi piacciono. E anche perché Parigi dà il meglio di sé quando la guardi con gli occhi spalancati e ingenui del turista.

Com’era in fondo inevitable, e come periodicamente fanno i media sui due lati della Manica, continuo a pensare alle due città in contrapposizione. Ho fatto e rifatto i miei discorsi talmente tante volte che posso snocciolare i pro e i contro dell’una e dell’altra come un rosario. Londra: più grande, più varia, più internazionale, più verde, più all’avanguardia. Parigi: più carattere, più identità, più gioia di vivere, più socialità senza complicazioni, più intelletto. Alla fine mi ritrovo sempre a constatare che non so cosa sia un londinese, o perfino se esista; mentre mi è chiarissimo chi sia il parigino-tipo. E questa differenza in fondo riassume bene le forze eguali e contrarie delle due città.

Ora il Guardian si attarda su un altro grano del mio rosario: le politiche urbanistiche, che poi sono la faccia di una città. E ci arriva anche lui, là dove non sono ancora arrivati i londinesi (ammesso che esistano): non si capisce questa smania, per fortuna iniziata quando già ero lontano, di voler trasformare Londra in una Dubai dei poveri. Poche cose sono avvilenti, nel panorama urbano, come un grattacielo. E in Europa, dove avevamo la fortuna di non averne, non se ne sentiva la mancanza. Il “bigger, faster, stronger, taller” è roba da popoli giovani, ancora impegnati a costruire le proprie identità e il proprio romanzo nazionale. L’Europa è sobria ed elegante (anche quando era violenta e imperialista.) “A gentleman will walk but never run”, diceva Sting.

Oggi a Londra si corre, e si sale. Si vede che a qualcuno piace guardare lo skyline da lontano: a camminarci sotto, ai grattacieli, è un’altra storia. Parigi ha ristabilito da poco un vecchio regolamento che limita l’altezza dei nuovi edifici a 37 metri. Nanismo voluto, fieramente rivendicato. Consapevolezza che le città come Parigi sono fatte per essere imitate, non per imitare.

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IL CLUB DEI RÂLEURS

Sto tenendo d’occhio con la massima attenzione l’eventuale insorgere di tutti i possibili sintomi: repentina insofferenza nei confronti di chiunque si trovi sul mio cammino; incontrollabile bisogno di alzare gli occhi al cielo e sbuffare; coazione ad alzare le spalle e fare “prrrr” a labbra strette, emettendo spruzzi di saliva a raggiera; voglia immotivata di spaccare un cassonetto o di trattare male i clienti di un bar; incompatibilità istintiva nei confronti di un buon settanta per cento delle norme elementari d’igiene; desiderio insopprimibile di mangiare la buccia del salame; e naturalmente, sviluppo di una violenta avversione nei confronti di Materazzi, sì, lui, l’ex calciatore.

Per ora niente.

Ho ritirato il passaporto francese ormai da un paio d’ore, ma continuo a pensare che i granelli di zucchero lasciati sul tavolino dai clienti precedenti non vadano raccolti e mangiati, e che Marco Materazzi è un mito, anche se lo pagai troppo caro al fantacalcio contando sul fatto che avrebbe calciato le punizioni.

Ma quel che è fatto è fatto: sono un citoyen de la République e quindi ci si aspetta che prima o poi inizi a comportarmi come tale. Per prima cosa, quindi, dovrei lamentarmi: râler, come dicono qui; questo è lo sport nazionale, altro che rugby o ciclismo. Râler è un’arte, è più che un semplice lamentarsi. Perché il râler sia omologato dall’associazione nazionale dei râleurs, che conta circa 67 milioni di soci, bisogna farlo spesso e bene. O quanto meno spesso, molto spesso.

Leggevo recentemente un articolo del Guardian che confermava la mia impressione: la Francia è un paradiso abitato da gente che crede di essere all’inferno. Ora, prendiamo subito il concetto di paradiso con due belle pinze, perché c’è ancora troppa cacca di cane per le strade, una selezione di superalcolici scadente nella maggior parte dei bar e un frescolino da nord Atlantico che d’estate è benedetto, ma il resto dell’anno ne faresti anche a meno. Ma è certo che la Francia è molto lontana dall’essere quell’inferno che la maggior parte dei suoi abitanti sembra pensare, avendo perso molta della fierezza nazionale dei suoi genitori e soprattutto dei nonni.

Secondo la metà dei francesi la Francia è ostaggio dei teppisti che spaccano le vetrine e invasa da immigrati nordafricani che sostituiranno la popolazione bianca e imporranno l’islam come religione di stato; secondo l’altra metà, è il Cile di Pinochet, un paese controllato da forze dell’ordine assetate di sangue e spietati capitalisti neo-liberali determinati ad accelerare il riscaldamento globale finché i polli deporranno le uova già fritte.

Direte: e quale paese oggi non è polarizzato e scontento in questa maniera?

Vero. Ma prima o poi ce la dovremo lasciare alle spalle, questa guerra civile fra complottisti no-vax e servi della dittatura sanitaria.

E poi alcuni paesi hanno ragione di esserlo, scontenti e polarizzati. Pensate a quelli che discutono del diritto di tenere in casa un fucile d’assalto automatico mentre nelle scuole c’è una strage alla settimana, per esempio; o a quelli che ancora si leccano le ferite per essersi sbattuti fuori dall’Europa da sé, come il proverbiale marito che si sparò nei testicoli per fare un dispetto alla moglie. Quanto all’Italia… «Tesoro, ho due notizie sulle ultime elezioni: una buona e una cattiva». «Quella buona?» «Abbiamo per la prima volta una presidente del consiglio donna.» «Ah, bene! E quanto potrà mai essere cattiva l’altra?» «Ecco…»

Ma qui, all’ombra del Sacro Cuore, qual è la cosa peggiore che può succedere? Voglio dire, a parte l’attentato occasionale, idea con cui ormai conviviamo come col rischio che qualcuno passi col rosso mentre attraversiamo la strada?

È vero, come mi ricordano alcuni amici francesi, che è grazie a questa tendenza a râler, purché canalizzata nell’azione e non nel miserabilismo del «piove, governo ladro», che la Francia gode di quel che gode, ovvero, fra tutti i paesi del mondo economicamente sviluppato: un livello di protezione sociale fra i più alti, un tasso di disugaglianza fra i più bassi (a livelli scandinavi), una sanità pubblica invidiabile, un sistema di aiuti per i disoccupati talmente generoso che molta gente che conosco sceglie di non lavorare, un cospicuo reddito integrativo per gli artisti che non guadagnano abbastanza per mantenersi da soli, e tanta altra roba. E, anche dopo la vituperata riforma, un’età pensionabile fra le più basse del mondo occidentale.

Queste cose non ce le hanno gentilmente regalate, mi dicono gli amici, ce le siamo conquistate, a forza di râler. Vero pure questo (tendo a essere sempre conciliante, vedete). Ma a che giova conquistarle se poi non ce le sappiamo godere?

Prendano esempio da noi italiani, che ci siamo sempre goduti anche quello che non avevamo.

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QUANDO LA MUSICA MUORE

Il Guardian è l’ultimo in ordine a chiedersi se la musica composta con l’intelligenza artificiale soppianterà del tutto la musica composta dagli esseri umani (ma quale sarà la definizione di essere umano, fra qualche secolo?), ovvero se l’intelligenza artificiale segna la fine della musica, la sua morte.

Ora, tanto per cominciare, se vogliamo trovare veramente un evento che abbia segnato la morte della musica, io sceglierei l’invenzione del grammofono alla fine del XIX secolo; perché la musica fino ad allora si poteva godere solo dal vivo, come è giusto che si goda la musica. Non c’era distanza fra esecuzione e ascolto, fra musicista e pubblico, fra l’emozione dell’uno e quella dell’altro, e ascoltare musica era davvero quel che oggi, troppo sbrigativamente, si definisce un’esperienza.

La tecnologia dell’incisione avrà creato senz’altro un sistema più democratico, perché non tutti avevano accesso a un concerto di Mozart, ma chiunque abbia ascoltato un brano su Spotify e poi l’abbia ascoltato (e visto) in concerto, sa che il primo sta al secondo come la foto di un’isola tropicale sta all’affondare i piedi nella sabbia. Da quando è possibile ascoltare musica registrata, magari suonata e cantata da gente morta da tempo, la musica è diventata qualcosa d’infinitamente riproducibile, eternamente fruibile, ovvero di disumano, robotico. Morta.

Ma non abbastanza morta da non poter morire di nuovo quando si è preso il vizio d’infilare la spina alla presa e malmenare strumenti elettrici, i cui suoni hanno poco a che vedere con la fonte meccanica che li ha prodotti. L’avvento dei sintetizzatori e dei computer capaci di produrre suoni – non di ri-produrli o amplificarli, o distorcerli, ma produrli, dal nulla – è stata solo un’evoluzione secondaria, a quel punto.
Finora c’era sempre un essere umano dietro, dite voi.

Dietro ogni tasto di un computer, di una tastiera, c’è un dito che lo spinge. C’è un cervello umano che ha pensato quelle note, quelle parole. Ci sono esperienze vere o magari immaginate, ma immaginate da persone. Ora, per colpa dell’intelligenza artificiale, quelle persone non servono più.

Ma dove sta il problema? Tutti coloro, e possono essere tanti, a cui la differenza non importa, si godranno le canzoni generate dall’intelligenza artificiale e non sarà peggio di ascoltare una boy band degli anni ’90. Quanto agli altri, se quel che c’interessa è l’umano, dateci pure mille canzoni generate dall’intelligenza artificiale, ne sceglieremo sempre un’altra, scritta e cantata da una persona. I Nirvana non sono i Nirvana solo grazie a quegli accordi, quelle schitarrate, quei forte/piano, quegli stop and go, ma soprattutto grazie al fatto che dietro, ci stanno le trippe puzzolenti di Kurt Cobain (no, non bisogna per forza morire tragicamente per essere un musicista credibile, ma aiuta). Pure il Guardian ci arriva, anche se l’articolo cita gli esempi sbagliati, quelli di corporation da miliardi di dollari chiamate Taylor Swift e Rhianna. E se ci arriva il Guardian…

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STIEG LARSOON E LE MIE USTIONI

Nel lontano 2009, in vista di una vacanza al mare, misi in valigia Uomini che odiano le donne, bestseller interplanetario postumo di Stieg Larsson, capostipite di un filone a metà fra genere letterario e coordinata GPS poi definito Scandi noir. La lettura di quel romanzo mi bastò per tenermi lontano dall’autore e dal genere per i successivi tredici anni, come un bambino che ha appoggiato non la mano, ma la faccia sul forno rovente. E ce l’ha tenuta per settecento pagine.

Lo scorso mese, in vista di un’altra breve vacanza al mare, cercavo un libro abbastanza lungo da accompagnarmi per buona parte della vacanza, ma che non mi sarebbe piaciuto molto, così da non preoccuparmi troppo nel rovinarlo senza pietà con le mie mani bagnate di acqua salata, e soprattutto da poterlo abbandonare senza rimpianti alla partenza, in modo da tornare a casetta mia con un bagaglio più leggero. Sì, i criteri di scelta di una lettura possono essere i più strani. In questo caso, per me, erano il numero di pagine e il fatto che non rischiasse di piacermi troppo. Così va la vita.

Vuoi mica che nei giorni precedenti alla partenza non trovo sugli scaffali dedicati al book crossing in ufficio il secondo tomo della famosa trilogia di Larsson? Ovvero quello che segue Uomini che odiano le donne? In italiano, mi dice Wikipedia, s’intitola La ragazza che giocava con il fuoco. Nell’edizione francese che ho trovato in ufficio, il titolo si tradurebbe come La ragazza che sognava di avere un bidone di benzina e un fiammifero (i francesi, si sa, tendono a enfatizzare). La memoria della mia ustione facciale essendo ormai troppo lontana nel tempo, mi sono riavvicinato al forno rovente, dicendomi che quel secondo tomo di Larsson avrebbe fatto al caso mio.

Fra le cose che mi hanno (nuovamente) esasperato, nella scrittura di Larsson, c’è la sua maniera di presentarci ogni personaggio, al momento della sua prima comparsa nella storia, come se ne facesse un identikit per la polizia. Con una menzione speciale per la coazione a farci sapere l’età del personaggio in questione.

Ma in fin dei conti, ho avuto esattamente quel che volevo: perché il romanzo mi ha in effetti occupato per gran parte delle ore che non ho trascorso venti metri sott’acqua, con le mante e i tonni; e perché l’ho abbandonato senza alcun rimordimento ai futuri visitatori di quel piccolo angolo di Nuova Guinea.

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BABYLON, IL FILM KEBAB

Babylon è uno di quei film che piace mentre lo vedi e inizia ad autodistruggersi dal momento stesso in cui partono i titoli di coda; anzi, da qualche minuto prima.

Obiettivamente è un bel film: bravissimi attori, produzione senza limiti, un otto-volante di scene orgiastico-pantagrueliche con intermezzi sobri che offrono a Brad Pitt, Margot Robbie e Diego Calva l’opportunità di mettere in evidenza le loro tonalità drammatiche. Un lavoro perfettamente riuscito, un film fatto come quelli che di solito vincono gli Oscar (che sono sempre più un premio al budget e alla produzione.)

Me lo sono goduto, quindi; e anche se non posso dire che le tre ore abbondanti siano passate in fretta, abbiamo retto bene. Sì, sono contento di averlo visto.

Ma più ci penso, a Babylon, mentre passeggio nel freddo lungo Saint Eustache e imbocco la rue Montorgueil, maledicendo il più crudele dei mesi, più mi dico che in fin dei conti nessuno sentiva il bisogno dell’ennesimo film sul cinema. Più precisamente, di osservare Hollywood che si masturba davanti a una foto di Hollywood. Stiamo ancora facendo i rutti all’aroma di La La Land e i peti che sanno di Once Upon a Time In Hollywood, lasciateci riprendere fiato, no?

No, dice lui: chi se ne frega se non ce n’era bisogno? I film non si fanno solo perché ce n’è bisogno. Che bisogno c’era di Blade Runner? Eppure lo amiamo tutti. Chi se ne frega se Hollywood sforna più film su se stessa di quelli che abbiamo il tempo di vedere? Giudichiamo Babylon per i suoi pregi e difetti, non per quelli dei film che l’hanno preceduto.

E non ha mica torto, chi dice così. Il problema è che alcuni dei difetti di Babylon non sono scindibili dai film che l’hanno preceduto, nel senso che sono letteralmente pezzi di film che l’hanno preceduto.

Io non ho niente contro gli omaggi, ma quando un film è letteralmente una sequenza di omaggi e citazioni, nasce il sospetto che se lo fai passare attraverso un colino per filtrare citazioni e omaggi, non resta molto. Dai baccanali del Grande Gatsby, di Luhrmann e di Kubrick alle vomitate dell’Esorcista e dei Monty Python, dai richiami al vecchio West ai sample di Gene Kelly fino alla didascalia bulimica con Méliès e Buñuel e Matrix e Avatar, il film è farcito di idee altrui e di cose già viste come uno di quei kebab che appena li mordi da un lato ti sbrodoli tutto dall’altro.

Alcuni fra i personaggi principali sono ispirati a gente di cinema realmente vissuta. Però caro Chazelle (è il regista), se le storie vere a cui ti sei ispirato non le puoi cambiare, le puoi almeno raccontare in maniera meno prevedibile. Io non farò spoiler, tranquilli, però ci pensa Chazelle stesso a farli: dal momento in cui vedi la faccia di ogni personaggio per la prima volta nel film è impossibile non indovinare dove andrà a finire.

La questione della segregazione razziale è presentata in modo raffazzonato, incastrata così al margine dell’intreccio da farti temere che ce l’abbiano infilata solo perché il regista e i produttori s’immaginavano le bordate che avrebbero preso se non l’avessero fatto.

In breve Babylon è un bel film che vale la pena di vedere e poi dimenticare.

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C’E’ POCO DA PIANGERE, BOYS.

«Prof, ci facciamo una foto insieme per la classe?»

La Babsie naturalmente acconsente entusiasta – come dire di no a un ragazzo così giovane e segnare fin d’ora la sua vita col trauma del rifiuto? Così, mette il braccio intorno alle spalle del suo studente e sorride, mentre la ragazza di lui immortala allievo e insegnante in mezzo alla folla. Quanto a me, mi chiedo che effetto debba fare a quel ragazzo il fatto d’incontrare la sua insegnante nel parterre di un concerto rock. A me non sarebbe mai potuto succedere, perché quando ero adolescente o giovane universitario gli esseri umani cominciavano ad andare in putrefazione verso i trenta, me lo ricordo bene. A quaranta, gli adulti erano impagliati e li spostavano con la gru. Bella cosa l’evoluzione della specie.

È la quinta volta che vedo i Cure negli ultimi sei anni e ho l’impressione che gli unici a invecchiare in questo periodo siamo stati io e Robert Smith. Anzi: lui è nato vecchio, quindi l’unico sono io. Il resto del pubblico ai concerti? Ieri sera l’ho trovato ringiovanito.

E pensare che in ufficio, poche ore prima del concerto, dicevo esattamente il contrario a una collega più giovane di me durante una pausa-caffè. E non mentivo, ci credevo proprio! Ci credo ancora, a dirla tutta. Fatto sta che le parlavo dell’invecchiamento inesorabile del rock, non solo nelle sue mille incarnazioni terrene (benvenuti nell’era in cui le rockstar schiattano di vecchiaia più che di overdose), ma soprattutto in quanto idea del mondo e fenomeno socio-culturale. Insomma: parlavo dell’invecchiamento della tribù del rock, cioè di coloro che continuano ad amarlo e a frequentarlo. Cosa che mi è saltata agli occhi come uno spruzzo traditore lanciato da uno spicchio di limone, nei trentacinque anni che ho passato a bazzicare la musica live (ah, i Duran Duran a San Siro nel 1987… La prima stecca di Simon Le Bon, come il primo amore, non si scorda mai).

Dalle piccole sale polverose di periferia dove ho sperato di scoprire i nuovi Oasis, fino agli stadi dove l’acustica è così scarsa che non sai mai se stai ascoltando Born in the USA o l’annuncio della sostituzione del terzino sinistro, ho sempre avuto la sensazione chiara e netta che il pubblico intorno a me fosse costituito da miei coetanei. Ovunque e in qualunque momento. Io però non ho più 15 anni come all’epoca dei Duran Duran: ne consegue, perché continui a essere mio coetaneo, che il pubblico del rock sia invecchiato insieme a me. A vedere i Cure nel ’92 eravamo tutti ventenni. Quando li ho ribeccati a Imola nel 2004 eravamo tutti trentenni. Nei primi anni ’10 ci si guardava con simpatia, come a dire: che ci facciamo noi quarantenni in prima fila?

Il che ha senso. Perché il rock è un genere musicale nato in una certa epoca. Ora, è vero che mi piace pensare alla musica leggera come a una forma di cultura popolare che attraversa ogni barriera, geografica e temporale. E’ vero che abbiamo l’abitudine di definire ‘immortali’ i Beatles e Edith Piaf (la cantante più rock della storia), sostenendo quindi che gli umani del 2356 continueranno ad ascoltarli attraverso lo streaming telepatico. Però, in fin dei conti, all things must pass, come diceva George Harrison, e il rock ha avuto i suoi bei sessanta, settant’anni di gloria. Il rock dovrà finire, la musica leggera sopravviverà in altre forme come ha sempre fatto.

Ma ieri sera? Ebbene, ieri sera ai piedi degli ultrasessantenni Cure c’era un nutrito contingente di giovani. Ma non quelli che gente come Michele Serra, Beppe Severgnini e Massimo Gramellini definirebbe «i giovani» – cioè gente che il più delle volte ha due dottorati, tre figli che vanno a scuola e un mutuo quasi estinto. No, parlo dei veri giovani: quelli che li vedi e ti chiedi dove siano i genitori, insomma.

Ecco, quelli: ieri sera ce n’erano un bel po’. Non erano la maggioranza, non erano neanche la metà, ma erano molto più che una minoranza sparuta. Una volta che la Babsie finisce di farsi le foto coi suoi fan, ci guardiamo intorno: e più guardiamo, più ne notiamo. Prendi queste due amiche, che avranno a occhio e croce 15 anni. Non resisto alla tentazione di sbirciare i messaggi che una delle due scambia con qualcuno al cellulare. Chatta con suo padre, che le chiede se va tutto bene e le dice che è contento di saperla al concerto con la sua migliore amica. Lei risponde «grazie papà», aggiunge qualche cuoricino.

Mi sto quasi convincendo che le poverette siano finite lì perché i genitori ce le hanno mandate: forse dovevano andarci i padri al concerto, o i genitori di una delle due, salvo poi avere un impedimento. Ma un’ora dopo, la ragazza dei messaggi sta ancheggiando a occhi chiusi insieme alla sua amica, con la sensualità imparata su TikTok, durante Strange Day. E poi cantano ogni sillaba di Boys Don’t Cry, A Forest e altri pezzi dei primissimi Cure, insieme al cantante sessantatreenne sul palco.

Vediamo.

Se io fossi andato, quindicenne, a ballare e cantare al concerto di un 63enne dell’epoca che si esibiva nel repertorio della sua gioventù, vuol dire che sarei andato a vedere… nessuno! Il rock non era stato ancora inventato, quando i 63enni del 1987 erano giovani.

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